«Circa duecento tonnellate l'anno di perfluorurati per la concia con un trend in crescita... Più della metà di queste sostanze viene utilizzata in Veneto: 109,31 tonnellate solo lo scorso anno»: ovvero la massiccia presenza di Pfas nel Nordest può avere un nesso con la presenza del distretto della lavorazione della pelle dell'Ovest vicentino. Sono queste le parole più significative di una lunga nota diramata
oggi a mezzodì dalla Miteni, la società che secondo Arpav è tra le principali indiziate della contaminazione da Pfas nel Veneto centrale.
Più nel dettaglio Miteni per sostanziare la sua presa di posizione fa riferimento ad uno studio commissionato dalla stessa spa berica a Global Market Insight «uno dei principali istituti di ricerca di mercato al mondo». Per vero nel respingere seccamente al mittente le accuse del coinvolgimento della fabbrica trissinese in uno dei più noti scandali ambientali del recente passato italiano, l'amministratore delegato della società Antonio Nardone (nel riquadro) non accusa direttamente nessuno, concia in primis.
Però usa comunque usa parole di fuoco: «I dati sono a nostro avviso molto chiari e non vogliono puntare il dito contro nessuno ma dare una indicazione oggettiva della situazione attuale e del passato. Dati che sono perfettamente allineati con le disposizioni che lo scorso anno ha dato la sentenza del tribunale Superiore delle acque pubbliche che aveva indicato gli utilizzatori dei Pfas come punto fondamentale per affrontare il problema. Non si può ora non considerare - aggiunge Nardone - che in Veneto vengono usati Pfas in volumi decine o centinaia di volte più grandi di quanti non ne abbia mai scaricati Miteni. Non si può adesso ignorare che le zone contaminate sono coerenti con gli scarichi di alcuni tipi di produzione e che non hanno nulla a che fare con la falda dello stabilimento. Questa ricerca rivela il tassello che mancava nella comprensione del fenomeno».
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